domenica 18 settembre 2022

Un giorno a Govone


Castello reale di Govone

Ogni tanto bisognerebbe prendere la macchina e lasciarsi semplicemente portare dove conduce la strada. Senza pensare al tempo, alla distanza, agli orari: bisognerebbe imparare che ci sono cose della vita che non andrebbero mai rimandate, come dire a una persona che la ami o che la perdoni. Lasciarsi portare dalla strada così, entro il confine degli antichi Stati sardi, un po' come feci io, peccato che non ricordi più quando né perché. In una di queste peregrinazioni, bisognerebbe spingersi fino al Roero, nella valle del Tanaro, fino a Govone. A metà tra Alba ed Asti - e chi mi conosce bene sa che una parte del mio cuore vive tra quelle colline - si trova questo piccolo comune, dominato dal Castello Reale. Tra le sue stanze, opera delle mani e della visione di Juvarra e Guarini, ancora si sente l'eco della voce di Vittorio Amedeo III di Savoia che, incantato dalla bellezza della costruzione, acquistò il castello per i suoi figli e, poi, lo elesse come sua residenza estiva insieme al Castello di Agliè.

Castello Reale di Govone, particolare degli interni

C'è una ragione per cui torno sempre tra le Langhe, il Roero o il Monferrato. Forse per la bellezza dei luoghi, tanto da essere riconosciuti Patrimonio UNESCO; forse per quei vini, che tra studio e passione hanno tanto rubato il mio tempo; forse per la cucina, che nella sua tradizione non mi stanca mai. Come la carpionata o il vitello tonnato della Trattoria Pautassi, che sapevano di semplicità, di famiglia, di affetto.

 


Un calice di vino, una passeggiata tra la storia e i sapori del Piemonte. Non bisognerebbe attendere "l'occasione per" ma, una volta tanto, imparare a perdersi senza una meta. Un po' come è capitato a me.

domenica 17 gennaio 2021

Taccuino di viaggio: sulla strada degli Infernot.


di Lucia Bongiorni

Quasi sul confine della provincia di Asti ma ancora alessandrino, sulle colline del Monferrato e a destra del torrente Grana si trova Vignale Monferrato. Un tempo lontano, prima di quello dell'uomo, non erano le colline, ma il mare a disegnare i confini con il cielo. Oggi questo mare antico non è più, ma di esso ritroviamo il ricordo nella pietra da cantoni in cui vennero scavati gli Infernot.


Architetture uniche e preziose, gli infernot sono cantine scavate a mano e prive di finestre destinate alla conservazione delle bottiglie ma altrimenti utilizzati anche per la conservazione delle carni, delle verdure e, più in generale, delle merci deperibili. Quello di Vignale, scoperto per caso durante i lavori di ristrutturazione della scuola, è piccolo e poco profondo, ma ugualmente affascinante. Gli infernot del Monferrato - inclusi dall'UNESCO nel Patrimonio dell'Umanità - sono nati dall'esigenza pratica di avere un locale per la conservazione del vino in cui temperatura e umidità fossero costanti; oggi sono monumenti materiali all'abilità dell'uomo di aver saputo trasformare la roccia in in riparo per una parte tanto importante dell'economia del Piemonte nell'Ottocento.

 
 

Ma Vignale Monferrato non è solo la prima tappa lungo la strada degli Infernot: è un paese che svela la sua bellezza a poco a poco, un vicolo dopo l'altro. A pochi passi dalla centralissima e piccola Piazza del Popolo, compare nella sua bellezza Palazzo Callori, sede dell'enoteca regionale del Monferrato.

Palazzo Callori

Costruzione sobria ma imponente, dalle caratteristiche facciate di tufo e mattoni, nasce da un edificio più piccolo e di origine medievale. In questo periodo è in corso di restauro, ma colpiscono la sobria eleganza delle stanze a piano terra e l'intima armonia del cortile interno, che conduce alla scalinata verso il giardino.

Colpa forse della passeggiata o della consapevolezza della bontà della cucina locale, l'ora di pranzo si trasforma in gioia alla Trattoria Sarroc. Poco distante dal centro, la terrazza del ristorante si apre verso le colline e invoglia, prima di tutto, a fermarsi a guardare i declivi pettinati di viti e le nuvole di un cielo che comincia a profumare dell'autunno incipiente. 

 

Si chiama Sarroc da via San Rocco, dove i padroni della splendida trattoria avevano comperato l'immobile per l'omonimo loro primo locale. Adesso il ristorante è stato spostato in una vecchia cascina, sapientemente ed elegantemente ristrutturata, dove al calore dei locali si unisce l'altrettanto calorosa accoglienza del personale. 


La cucina è piemontese, rispettosa della tradizioni e del territorio; la carta dei vini interessante, completa e chiara, che parte dalla grande tradizione enologica del Piemonte per poi allargarsi anche ad altre realtà regionali. Incapace di scegliere quali piatti ordinare, non ho saputo resistere al superbo "Trionfo piemontese in tavola": una tavolozza dei sapori e dei colori della tradizione monferrina resa ancora più accattivante da qualche bacca di americanino, dal profumo di fragola. Un crescendo di sapori che scalda il palato e il cuore e che ritrovo nei golosissimi gnocchi alla fonduta di Castelmagno con miele e noci. 

Trionfo piemontese in tavola

Gnocchi con fonduta di Castelmagno

Ad accompagnare il pranzo, un Ruché DOCG di Castagnole Monferrato, vino rosso secco, rubino agli occhi, intenso e leggermente speziato al palato, spesso tradizionalmente servito con gli antipasti caldi piemontesi e con i formaggi mediamente stagionati.

Ho aspettato tanto, forse troppo, prima di scrivere queste poche righe. Forse avrei dovuto farlo prima, ma confesso che mi sono mancate la voglia e lo spirito. Sempre immersa nel lavoro, sempre davanti al computer - maligno strumento che ormai accompagna ogni nostra attività - alla sera non avevo più voglia di pensare. Adesso siamo tornati ancora in zona rossa ma voglio che questo colore continui a ricordarmi le ciliegie, i tramonti al mare, le fragole mature o un calice di vino, non il fatto che posso guardare il mondo solo attraverso i vetri della mia finestra. 

Ho deciso di tornare a raccontare di vino e di cibo usando il materiale delle poche giornate trascorse in serenità, tra l'estate e il primo autunno, quando le foglie cominciano a imbrunirsi: un taccuino di viaggio, questa volta, da assaporare con il ricordo e nel desiderio di tornare presto a essere più spensierati, tornare a quando ci sembrava di non avere niente e invece avevamo forse non tutto, ma molto più di oggi.


Dove si perde il ricordo...


mercoledì 5 agosto 2020

"Rurale" e profumo di luppolo



di Lucia Bongiorni

C’erano una volta un vecchio silo e un sogno. “C’era una volta” forse è esagerato per parlare del 2009, eppure all’inizio c’erano solo un silo e cinque amici che decidono di dedicare una parte della propria vita alla birra. Sogno che diventa realtà o una realtà che pare un sogno – come in quel libro di Queneau in cui non si capisce se è il Conte d’Auge che sogna di essere Cidrolin oppure quest’ultimo che, nel torpore del sonno, sogna d’essere il Conte d’Auge – i cinque amici  - Beppe, Lorenzo, Marco, Silvio e Stefano - trasformano l’idea in concretezza e nasce il Birrificio Rurale. Uovo e gallo, gallo e uovo, ovvero il dilemma del gallo con l'uovo... Oggi il marchio del Birrificio Rurale fa bella mostra di sé in tante etichette e quel silo di Cascine Calderari – poco oltre la Certosa di Pavia – dove tutto è nato ha lasciato il posto a locali ben più ampi in quel di Desio, dove è entrato a far parte del gruppo Luca, art director della banda. Ma la qualità, la passione, l’artigianalità della birra del Birrificio Rurale rimangono le stesse di un tempo; tale la passione di questi amici.

Mentre scrivo queste poche righe per raccontare di un pomeriggio speciale e inconsueto, trascorso in un istante a riprova di quella relatività del tempo di cui si parla ormai da più di un secolo, non posso che sorseggiare una birra. Che sembra seta al palato e profuma delicatamente di coriandolo e buccia d’arancia. Beverina e leggera, stile belga, deve il suo nome – Seta – proprio a quella delicatezza e leggerezza che la contraddistinguono. Primogenita del Birrificio e "Birra dell'anno 2014", ha oggi una gemella, Seta Special an Italian touch - che profuma non più d’arancia ma di quel bergamotto che sa anche di mare e di Mediterraneo, culla degli dei.


Difficile o forse impossibile trovare una birra preferita tra quelle prodotte dal Rurale; nonostante ciò, la nota delicata tendente al pompelmo e il profumo di luppoli – rigorosamente americani – che caratterizza la APA 3° Miglio non passa inosservata. Birra storica dell’azienda e riconosciuta come “Birra dell’anno 2010” dalla Unionbirrai, evoca non solo la storia del birrificio ma anche una simpatica competizione sportiva (e un po’ goliardica) vigevanese.


Un insolito pomeriggio d’estate e un percorso tra le birre – tutte da provare - prodotte da uno dei primissimi birrifici artigianali della Lombardia. Sarà l’estate, saranno l’inebriante profumo del luppolo e la storia antica del malto che diventa come il sole nel bicchiere, sarà l’accoglienza di Marco. Gli ingredienti di questa giornata un po’ speciale sono come la birra: semplici ma che sanno nascondere un segreto. Sembra tutto, ma è solo l’inizio. Come sempre, infiniti istanti di bien vivre.


lunedì 3 agosto 2020

Tra passato e presente (nella vigna del Cavariola)


di Lucia Bongiorni

Una mattina, magari proprio questa, in cui una timida nebbia vela le colline e il caldo dei giorni passati sembra improvvisamente dimenticato, provate ad arrivare a Broni e a prendere la strada che conduce verso Canneto Pavese. Poco oltre, dopo una curva - il declivio dolce a poco a poco si fa più aspro - la valle si aprirà alla vostra destra verso il castello di Cigognola mentre, a sinistra, troverete una vigna antica con il suo "casott": ecco, fermatevi lì, perché è lì che nasce il Cavariola.



Paolo Verdi, con un sorriso, sa raccontare la storia dell'azienda della sua famiglia con la semplicità di quelle fiabe che si leggevano quando eravamo ragazzi; eppure, dietro la sobrietà della narrazione, si nasconde quel lavoro che fa sì che la vita della vite e del vino travalichino l'arco della fragilità umana e diventino parte di una storia più ampia. Come quella della famiglia Verdi, giunta in Oltrepò nel XVIII secolo e da allora dedita alla coltivazione della vite e alla produzione di vino. Occorre però attendere per vedere le etichette con il nome dell'attuale azienda, nata dalla volontà di Bruno, padre di Paolo. Negli anni Ottanta l'azienda passa proprio nelle mani di quest'ultimo, il quale si dedica con la stessa intensità tanto alla cantina quanto alla vigna. I filari più antichi, impiantati negli anni Quaranta, sono bellamente illuminati su un pendio che rende l'allevamento della vite un compito eroico e che accoglie barbera, croatina, vespolina e uva rara, coltivazioni tipiche dell'Oltrepò pavese.


Dal lavoro della famiglia Verdi nascono più etichette: Cru, Metodo classico e preziosi vini d'annata. Tra di essi, il vino del cuore di Paolo - e forse anche del padre Bruno - è proprio il Cavariola. Viene descritto come "un vino dalla forte personalità" ed è un regalo della terra che viene messo in bottiglia. Rubino nel calice, dona al naso un coinvolgente profumo di spezie. Un segreto da degustare, per ricordare un celebre aforisma di Dalì.


Se è vero che della vita si ricordano gli istanti, io non potrò dimenticare la calda e amichevole accoglienza che Paolo e la sua famiglia hanno riservato ai miei amici e a me. Un caffè e un biscotto in vigna, nel "casotto" di mattoni dove da sempre i vignaioli e i contadini hanno cercato riparo e riposo, dalle intemperie o dalla calura estiva. La scoperta, in cantina, dell'eccellenza del Cavariola e del Vergonberga - dal nome della frazione in cui si trova l'azienda - Metodo classico Extra Brut Nature, nato da uve Pinot nero e Chardonnay, dalla bolla persistente e fine, dal profumo che ricorda una giornata di festa. Infine, quattro chiacchiere in terrazza, con la vista sulle colline che amo da sempre e per sempre, come fossimo vecchi amici che si ritrovano sorseggiando un calice di vino. Infiniti, indimenticabili, istanti di bien vivre.



sabato 25 luglio 2020

Con la leggerezza di una Farfalla



di Lucia Bongiorni

Chissà se Angelo Ballabio, nel 1905, quando ha fondato la cantina, aveva immaginato che un  giorno di cento anni dopo ci sarebbero state una vigna e un'etichetta il cui nome evoca prati primaverili e profumo di fiori. Alessandro Jodorowsky ha scritto che "psiche", in greco, significa "anima" ma anche "farfalla": "nasciamo con un bruco di anima e il nostro lavoro è dargli ali e volo". In effetti è stato proprio così: la famiglia Nevelli, con anima e dedizione e amore per questo nostro Oltrepò, ha preso il mano le redini della cantina fondata da Angelo Ballabio e le ha ridonato ali e volo. 

 

Nel cuore delle colline che circondano Casteggio - l'antica Clastidium la cui storia (e leggende, che parlano di elefanti e di Annibale) s'intreccia con quella del console Marco Claudio Marcello - si sviluppano i vigneti dell'azienda Ballabio, che deve il nome all'eclettico - si sottolinea - e coltissimo Angelo, già "Provveditore della Casa Reale" nel 1931. L'azienda oggi si distingue per la produzione esclusiva di Metodo Classico con uve Pinot nero; una scelta consapevole voluta dalla famiglia Nevelli che, progressivamente, ha abbandonato le varie tipologie che caratterizzano storicamente la viticoltura dell'Oltrepò pavese allo scopo di dedicare la propria attenzione solo al pinot nero. Una volontà che li ha portati anche alla ricerca e allo studio di quelle che possono essere le migliori varietà di pianta a seconda della destinazione in bottiglia. La cantina si trova immersa tra le vigne e un uliveto di rara bellezza, e da sotto l'ombra di alcuni gelsi secolari - pianta cara alla nostra tradizione contadina - si può apprezzare con ancora più gusto la bollicina intensa e aromatica dello spumante godendo della vista del mare della pianura sottostante. 


La migliore espressione della cantina è lo spumante Farfalla, che deve il suo nome a una vigna suggestiva che si trova quasi al limitare della collina, così vicina al cielo, e la cui forma ricorda quella di una farfalla a cui sono state ridonate le ali per spiccare il volo. Una farfalla di pinot nero, che diventa, grazie alle sapienti mani dell'uomo e a un lavoro antico quanto il nostro tempo, un infinito momento di felicità nel bicchiere.





sabato 14 marzo 2020

Crostata morbida ricotta e cioccolato




di Lucia Bongiorni

Come non dedicarsi alla cucina i questi giorni di primavera e di vita domestica? Nella torta che vi propongo oggi un guscio di morbida pasta profumata di vaniglia racchiude un ripieno profumato di cioccolato e moscato di Sicilia. Ingredienti di terre lontane che si incontrano: il vino di Sicilia impreziosisce la morbida ricotta prodotta in Oltrepò pavese ed entrambi esaltano il ciccolato fondente del Piemonte. Un dolce abbraccio per ricordarci che tutto andrà bene.

Crostata morbida ricotta e ciccolato

Ingredienti
Farina 00, grammi 500
Zucchero fine, grammi 200 + due cucchiai per il ripieno
Burro, 120 grammi
Uova intere, 2 per la pasta e 1 per il ripieno
Una bustina di lievito vanigliato
Ricotta fresca (io uso la Ricotta del Caseificio Cavanna di Rivanazzano), 500 grammi
Cioccolato fondente Novi, 100 grammi
Due cucchiai di Moscato siciliano



Preparazione
Lavorate il burro con la farina, le uova, lo zucchero e il lievito; l'impasto dovrà risultare morbido ma cosistente. Fatene una palla, avvolgetela nella pellicola e lasciatela riposare in frigorifero per almeno un'ora. Nel frattempo montate la ricotta con l'uovo, due cucchiai di zucchero e i due cucchiai di moscato. Aggiungete alla fine il cioccolato: io preferisco tritarlo a mano con un coltello pesante, affinché ne rimangano nel ripieno anche pezzetti più consistenti.
Foderato uno stampo a cerniera con la carta da forno, quindi preparate il guscio di pasta. Lasciatene da parte un po' per chiudere la torta. Riempite con la farcitura e richiudete con la pasta rimanente. Lasciate cuocere 40 minuti a una temperatura di 180 gradi. 
Io la servo con un calice di Botritis Muscà dell'Azienda Agricola Ca' del Santo di Montalto Pavese, dal sapore morbido e aromatico: un vino molto strutturato che regge il sapore del cioccolato e ricorda il profumo del moscato usato nell'impasto. Infiniti istanti di bien vivre.

Ringrazio l'amico e "Direktor" Paolo Percivalle per i preziosi consigli sull'abbinamento tra cibo e vino.




domenica 9 febbraio 2020

Taccuino di viaggio: Brescia e La Vineria.


di Lucia Bongiorni

La prossima domenica fate una passeggiata a Brescia. Dopo aver nutrito gli occhi alla pinacoteca Tosio Martinengo, perdetevi tra le vie del centro. Non dimenticate di entrare nel Duomo Vecchio, che da sedici secoli lascia che le anime vadano verso il cielo e non scordate di sognare la vita prima della caduta dell'impero romano d'Occidente ripercorrendo la Domus dell'Ortaglia. Poi, quando il sole sarà al centro del cielo e la fame avrà preso il sopravvento, cercate La Vineria.





Dove un tempo c'era il Monte di Pietà, nell'angolo con Piazza della Loggia, oggi si può trovare una graziosa enoteca che propone piatti della tradizione lacuale e bresciana, a cui accompagnare uno dei vini della Carta del locale, curata e attentissima alle proposte regionali. Il mio aperitivo comincia con un calice di Animante Franciacorta DOCG di Barone Pizzini. Nato da vitigni Chardonnay, Pinot nero e Pinot bianco, ha una sapidità che ben si sposa con lo stuzzicante Fish and chips alla bresciana. Croccante pesce del lago di Garda servito con sottili verdure che rendono ancora più irresistibile e appetitoso il piatto.
Fish and Chips... alla bresciana
Da provare le originali Linguine con le sardine essiccate di Montisola, servite con un condimento di burro alla nocciola. Ancora oggi, nel cuore del lago d'Iseo, si mantiene inalterata l'usanza di essiccare gli agoni locali - poi conosciuti con il nome di "sardine" - per utilizzarli in alcuni piatti della tradizione più antica. Un tempo gli agoni venivano pescati, salati quindi lasciati all'aria di lago appesi su rami di frassino o carpino, a volte addirittura sulle barche degli stessi pescatori. Se oggi la tecnica di essiccazione è cambiata, certo non è mutato l'amore per questo pesce dal sapore forte e intenso, mitigato nella linguina de La Vineria dalla dolcezza del burro e della nocciola.
 
Linguine con le sardine essiccate di Montisola e burro alla nocciola
Un calice di Lugana DOC, dal gusto fresco e delicatamente floreale, accompagna anche il secondo piatto, il filetto di salmerino con verdure, erbe aromatiche e maionese all'erba cipollina. La carne delicata e tenera del pesce ha un sapore dolce che viene riequilibrato dalle spezie e dalla salsa maionese. Accattivante nella presentazione, il filetto di salmerino sa conquistare rapidamente anche il palato.

Filetto di salmerino alpino con erbe aromatiche e majonese all'erba cipollina
La mia passeggiata sta per riprendere: Santa Giulia m'attende e io sono impaziente. Le colonne di quello che fu il Tempio Capitolino sono illuminate da un inconsueto sole estivo ed io non posso più attendere. Ruit hora.

E'l piö bèl belètt, 'l-è chèl che à zò dré al bèc.
I1 più bel belletto è quello che scende per il becco.
(Per avere una buona cena, ci vuole del buon cibo)
Proverbio bresciano